domenica 5 luglio 2009

Viaggiatore o colonizzatore?

Pensiamo al “Robinson Crusoe” (1719), paradigma letterario perfetto per un certo tipo di viaggiatore. Defoe aveva tratto la sua storia da un episodio realmente accaduto qualche anno prima: un marinaio scozzese venne abbandonato dai compagni su una piccola isola di un arcipelago al largo della costa cilena, dove visse per quattro anni in completa solitudine, fino a quando una nave di passaggio non lo riportò a casa. Nel 1712 uscì un libro del comandante che aveva prelevato il marinaio dall’isola, nello stesso anno la storia comparve anche in un opuscolo firmato Isaac James. Defoe fu l’autore che meglio di ogni altro trasformò le disavventure reali di un marinaio scozzese in un’opera della fantasia, tessendo sulla storia reale un romanzo che divenne rapidamente un “classico” della letteratura occidentale. Il motivo di tanta fortuna è che si presta a diverse letture, e l’opera si rivela preziosa anche per il discorso che a noi interessa: la riflessione “sull’incontro con l’altro”. L’incontro con l’altro di Robinson ha per oggetto un indigeno ribattezzato Venerdì, che Crusoe aveva salvato dal sacrificio di altri indigeni antropofagi. E subito la narrazione di Defoe ci propone un modello di pregiudizio di un uomo occidentale degli inizi del ‘700 nei confronti della natura e delle altre culture. Insomma Robinson Crusoe incarna perfettamente le aspirazioni e le strutture etico - religiose del suo mondo. Naufraga sull’isola vestito come un perfetto cittadino inglese, con i suoi strumenti, le sue armi e soprattutto con la lettura, la Bibbia, e sull’isola sa ricostruire in piccolo e molto fedelmente le strutture religiose, etiche, sociali, economiche e perfino amministrative dell’Inghilterra puritana e protestante che ha lasciato. Salva un uomo dal barbaro rito cannibalesco, spara colpi di fucile contro uomini e animali, fa esplodere dell’esplosivo per modificare il territorio, instaura un rapporto basato sulla forza e sulla sopraffazione con l’ambiente che lo circonda. Robinson è
un viaggiatore che non si fa cambiare dal suo viaggio, ma al contrario trasforma il luogo e l’altro che incontra, li costringe a somigliargli. L’isola diventa il suo dominio, gli altri saranno i nemici da temere e combattere, il migliore di loro, Venerdì, diventerà suo schiavo.
Un naufragio meno celebre ma vissuto realmente dall’autore di “Naufragios” (1542), lo spagnolo Alvar Nuňez Cabeza de Vaca, avvenne sulle coste dell’attuale Florida ed è tale da costituire l’esatto rovesciamento di quello di Crusoe. Cabeza de Vaca, al contrario di Robinson, perde nel naufragio tutti gli strumenti della sua civiltà, i vestiti, le armi, gli specchietti e le collanine, che dovevano incantare gli indigeni durante il viaggio di conquista: “Ci trovammo nudi come il giorno in cui venimmo al mondo, privi di quelle poche cose che, in quel frangente, per noi significavano tutto”. Vivrà in una tribù di indios per sette anni, aprendosi alla loro cultura al punto di diventarne elemento fondamentale, lo sciamano. L’integrazione con la sua cultura d’adozione è tale che Cabeza de Vaca arriverà a distinguere, verso la fine del suo racconto, un “noi”, lui e gli indios, e un “loro”, i vecchi connazionali spagnoli, sentiti ormai come estranei. Se Robinson riuscì a conquistare lo spazio incontrato, Cabeza de Vaca ne venne conquistato; se quello aveva asservito l’altro alle proprie convenienze e teorie, questo si era messo al suo servizio; mentre quello imponeva la sua cultura su un’altra ritenuta inferiore, questo la apriva al confronto e, pur senza mai rinnegarla, ne accettava le contaminazioni.

Non è solo la nostra intelligenza a farci percepire come migliore il secondo tipo di viaggiatore, ma la stessa parola “viaggio”, la cui origine richiama un elemento fondamentale: “viaggio” deriva dal provenzale “viatge”, a sua volta derivato dal latino “viaticum”, che designava originariamente gli “alimenti necessari per compiere la via”. “Viaggio” è quindi “ciò che viene consumato durante la strada”. Si dà al tutto il nome di una sua parte, una sineddoche che serve per illuminare uno degli aspetti più importanti del viaggio: perché un viaggio sia tale non basta considerare il puro spostamento che un individuo compie da un luogo all’altro, ma è necessario osservare cosa abbia alimentato il suo percorso, quale sia stato lo scambio avvenuto per strada, in altre parole, come l’esperienza del viaggio, cioè la scoperta dell’altrove, sia stata recepita e trasformata. La parola inglese “travel” il cui significato è “viaggio” conserva nell’etimologia qualcosa di doloroso: “tripalium” era il nome di uno strumento di tortura, così chiamato perché formato da tre pali. La parola assume quindi connotazione di sofferenza e castigo, come anche nell’italiano “travaglio”, ossia “tormento” e “fase preliminare del parto”. Anche il verbo italiano “partire” conserva nell’etimologia il sostantivo latino “pars”,”partis”, cioè “parte”,“frazione” quindi “distacco”, ma dalla stessa radice ha origine il verbo latino “parere” ossia “partorire”. Le sovrapposizioni travel/travaglio, partire/partorire sembrano paradossi linguistici, ma in realtà costituiscono un nucleo concettuale fondamentale attraverso il quale si organizza l’esperienza del viaggio: che è quella della ri-nascita sotto una forma diversa, data dall’esperienza dell’altrove e dall’incontro con l’altro. Cosa che sappiamo da tempo, nella tradizione del’Occidente giudaico-cristiano è infatti da sempre in cammino la figura di un viaggiatore immortale, ma quello che sembrerebbe un privilegio, vivere in eterno, assume la valenza di un terribile castigo: l’Ebreo errante, colpevole di aver oltraggiato Dio, è costretto a vagare senza meta e senza tempo fino al giorno del Giudizio. L’immortalità si trasforma in condanna, in quanto sottrae il viaggio al dominio normale dell’esperienza. Chi non può morire non potrà nemmeno ri-nascere; se l’esperienza non riesce a trasformare e rinnovare l’individuo, la condanna al moto perpetuo finirà con l’equivalere alla perfetta immobilità.

Purtroppo il prototipo di viaggiatore che meglio rappresenta la nostra civiltà europea-occidentale è ancora il “magnifico” Robinson Crusoe, che, nella nostra ottica, è l’eroe che ha sconfitto e contemporaneamente salvato il barbaro selvaggio, portando con le regole e la razionalità europea un po’ di “umana civiltà” in un mondo lontano, brutale e pericoloso. Colui che, dall’alto della propria superiorità di strumenti e mezzi, si è sentito a casa in entrambi i mondi, non perché si è aperto a tutti e due, ma perché il secondo l’ha distrutto e ricostruito come facsimile e copia del primo. Un viaggiatore superbo e chiuso, cieco e sordo, in definitiva, non un viaggiatore ma un colonizzatore.

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