mercoledì 15 luglio 2009

L’isola di Arturo di Elsa Morante (1957)

Arturo Gerace, guerresco ragazzo dal nome di una stella, nasce a Procida da padre di sangue misto, tedesco e italiano (la madre, morta di parto, la conosciamo solo attraverso una fotografia ingiallita). Vive lunghi anni beati tra spiagge e scogliere, pago di sogni fantastici, insieme alla sua cagna Immacolatella e una barca fregiata di titolo piratesco. Non si cura di vestiti né di cibi. E’ stato allevato con latte di capra da un “balio” di nome Silvestro, ormai lontano. La vita per lui è promessa solo di imprese e di libertà assoluta. Un idolo irraggiungibile la vichinga immagine paterna: Wilhelm Gerace, col fazzolettone a fiorami annodato intorno al collo e gli eterni pantaloni scoloriti e pieni di sole. Parte e arriva sempre inatteso, il padre di Arturo, tiene valigia con lo spago, gira l’isola in sandali, dio distratto e crucciato, corsaro di barba incolta, di lunghi capricciosi riposi irrequieti. Sporchissima, a picco sul mare, la disammobiliata abitazione di Arturo, antico convento di frati. Vi crescono erbacce, vi corrono lucertole e la polvere s’ammucchia. Ma non esiste immondizia sull’isola.
In questo libro troviamo le sue memorie, dall’idillio solitario alla scoperta della vita: l’amore, l’amicizia, il dolore, la disperazione. Come descriverlo meglio se non riportandone un passo, uno tra i miei più amati, tra i tanti amati…


Guapperie inutili

I libri che mi piacevano di più, è inutile dirlo, erano quelli che celebravano, con esempi reali o fantastici, il mio ideale di grandezza umana, di cui riconoscevo in mio padre l’incarnazione vivente.
S’io fossi stato un pittore, e avessi dovuto illustrare i poemi epici, i libri di storia ecc., credo che, nelle vesti dei loro eroi principali, avrei sempre dipinto il ritratto di mio padre, mille volte. E per cominciare l’opera, avrei dovuto sciogliere sulla mia tavolozza una quantità di polvere d’oro, in modo da colorare degnamente le chiome di quei protagonisti.
Come le ragazzine si figurano le fate bionde, le sante bionde e le regine bionde, io mi figuravo i grandi capitani e guerrieri tutti biondi, e somiglianti, come fratelli, a mio padre. Se in un libro un eroe che mi piaceva risultava, dalle descrizioni, un tipo moro, di statura mezzana, io preferivo credere a uno sbaglio dello storico. Ma se la descrizione era documentata, e proprio indubbia, quell’eroe mi piaceva meno, e non poteva essere più il mio campione ideale.
Quando Wilhelm Gerace si rimetteva in viaggio, ero convinto che partisse verso azioni avventurose ed eroiche: gli avrei creduto senz’altro se m’avesse raccontato che muoveva alla conquista dei Poli, o della Persia come Alessandro il Macedone; che aveva ad attenderlo, di là dal mare, compagnie di prodi al suo comando; che era uno sgominatore di corsari o di banditi, oppure, al contrario, che lui stesso era un grande Corsaro, o un Bandito. Lui non faceva mai parola sulla sua vita fuori dell’isola; e la mia immaginazione si struggeva intorno a quell’esistenza misteriosa, affascinante, a cui, naturalmente, lui mi stimava indegno di partecipare. Il mio rispetto della sua volontà era tale che non mi permettevo, neanche in pensiero, l’intenzione di spiarlo, o seguirlo, di nascosto; e non osavo neppure d’interrogarlo. Volevo conquistare la sua stima, e magari la sua ammirazione, sperando che un giorno, finalmente, lui m’avrebbe scelto per suo compagno nei viaggi.
Intanto, quand’eravamo insieme, cercavo sempre l’occasione di mostrarmi valoroso e impavido ai suoi occhi. Attraversavo a piedi nudi, quasi volando sulle punte, le scogliere arroventate dal sole; mi tuffavo nel mare dalle rocce più alte; mi davo a straordinarie acrobazie acquatiche, a esercizi vistosi e turbolenti, e mi mostravo esperto in ogni sistema di nuoto, come un campione; nuotavo sott’acqua fino a perdere il fiato, e riaffiorando riportavo delle prede sottomarine: ricci, stelle di mare, conchiglie. Ma inutilmente, spiando verso di lui da lontano, io cercavo nel suo sguardo l’ammirazione, o almeno l’attenzione. Sedeva a riva senza badarmi; e appena io, disinvolto, fingendomi noncurante delle mie imprese, lo raggiungevo di corsa e mi gettavo sulla sabbia presso di lui: lui si levava con una mollezza capricciosa, gli occhi distratti e la fronte corrugata, come se ascoltasse un invito misterioso, mormoratogli all’orecchio. Alzava le braccia pigre; si lasciava, steso sul fianco nel mare. E si allontanava nuotando lento lento, quasi abbracciato al mare, al mare come a una sposa.

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