giovedì 26 giugno 2008

L'importanza di essere vegetariani

E’ uscito recentemente sul quotidiano “Repubblica”, venerdì 6 giugno 2008, un bellissimo articolo intitolato “L’importanza di diventare vegetariani” di Umberto Veronesi. Sebbene le posizioni di Veronesi non sempre mi trovino d’accordo (anzi alcune uscite recenti le trovo proprio deplorevoli, intercettazioni telefoniche, ndr.) devo ammettere che sono rimasta piacevolmente sorpresa di questo articolo. Premetto che ho limitato il consumo di carne dall’età di 16 anni, e sono sempre più convinta e orgogliosa della mia scelta. Scrive Veronesi -“Molti uomini di scienza e pensiero hanno creduto che la scelta vegetariana fosse quella giusta per l’armonia del pianeta. Dal genio rinascimentale Leonardo Da Vinci, che non poteva sopportare che i nostri corpi fossero le tombe degli animali, fino ad Albert Einstein, il più grande scienziato del ‘900, che presagiva che nulla darà la possibilità di sopravvivenza sulla Terra quanto l’evoluzione verso una dieta vegetariana”-. Insomma non sono sola in questa mia piccola, ma grande, battaglia pacifica individuale. E Veronesi continua ribadendo il suo convincimento per un’alimentazione vegetariana portando avanti tre motivazioni:
1. Ecologica/sociale: –“I prodotti agricoli a livello mondiale sarebbero in realtà sufficienti a sfamare i sei miliardi di abitanti, se venissero equamente divisi, e soprattutto se non fossero in gran parte utilizzati per alimentare i tre miliardi di animali da allevamento. Ogni anno 150 milioni di tonnellate di cereali sono destinate a bovini, polli e ovini […] in pratica il 50% dei cereali e il 75% della soia raccolti nel mondo servono a nutrire gli animali d’allevamento. […] Trentasei dei quaranta Paesi più poveri del mondo esportano cereali negli Stati Uniti, dove il 90% del prodotto è utilizzato per nutrire animali destinati al macello. Viviamo in un mondo dove un miliardo di persone non ha accesso all’acqua pulita e per produrre un chilo di carne di manzo occorrono più di tremila litri di acqua.”-
2. Tutela della salute: -“Non ci sono dubbi che un’alimentazione povera di carne e ricca di vegetali sia più adatta a tenerci in buona forma. Gli alimenti di origine vegetale hanno una funzione protettiva contro l’azione dei radicali liberi, cioè quelle molecole che possono alterare la struttura delle cellule e dei loro geni. Si può quindi pensare che chi segue un’alimentazione ricca di alimenti vegetali è meno a rischio di ammalarsi e possa vivere più a lungo. C’è poi un altro fattore. Noi siamo circondati da sostanze inquinanti, che possono mettere a rischio la nostra vita. Sono sostanze nocive se le respiriamo, ma lo sono molto di più se le ingeriamo. Consumando carne, ci mettiamo proprio in questa situazione […]. L’accumulo di sostanze tossiche ci predispone a molte malattie cosiddette “del benessere” (diabete non insulino-dipendente, aterosclerosi, obesità ). Anche il rischio oncologico è legato alla quantità di carne che consumiamo. Le sostanze tossiche si accumulano più facilmente nel tessuto adiposo […]. Frutta e verdura sono alimenti poverissimi di grassi e ricchi di fibre: queste, agevolando il transito del cibo ingerito, riducono il tempo di contatto con la parete intestinale degli eventuali agenti cancerogeni presenti negli alimenti. I vegetali poi, oltre a contaminarci molto meno degli altri alimenti, sono scrigni di preziose sostanze come vitamine, antiossidanti e inibitori della cancerosi (come i flavonoidi e gli isoflavoni) […].”-
3. Etica-filosofica: Qui Veronesi mi ha toccato il cuore perché è quello che ti spinge a quindici anni a prendere una decisione come questa, è la motivazione più spontanea e “ingenua”, quella che senti dentro quando non devi ragionarci sopra “da adulto”, è l’impulso iniziale (e come è bello il mondo dagli occhi di un bambino…). Dice Veronesi –“Io ero un bambino di campagna, amico degli animali”- voglio sottolineare l’importanza di questa frase –“e oggi sono un uomo che ha il massimo rispetto per la vita in tutte le sue forme, specie quando questa non può far valere le proprie ragioni. Il cibo è per me una forma di celebrazione della vita, ma non mi piace celebrare la vita negando la vita stessa ad altri esseri.”-
Complimenti. Un discorso lucido e attento, interessante. Per noi: una riflessione nuova da portare avanti. Un piccolo appiglio. Un pensiero mai avuto. Un sorriso. Una speranza. Una ricchezza.

venerdì 13 giugno 2008

"Spostare il centro del mondo" di Ngugi wa Thiong’o

Convinto che ogni scrittore debba esprimersi nella propria lingua di origine, Thiong'o, nel 1977, incominciò a scrivere solo in kikuyu. Il governo Kenyatta prima lo mise in prigione, poi lo esiliò. In questi saggi famosi lo scrittore kenyota muove da una considerazione: l'Occidente si considera il Centro del mondo; controlla il potere culturale, così come controlla quello politico ed economico. Spostare quel centro è indispensabile per liberare le culture del mondo dai recinti del nazionalismo, della classe, della razza, del sesso. Thiong'o condensa in queste pagine un tema che negli ultimi anni ha attraversato tutta la sua attività letteraria, teatrale e saggistica e i suoi corsi universitari tenuti durante l'esilio americano. "Testo di forte impatto" (Le Mondo Diplomatique) per chi crede che il multiculturalismo e la libera espressione delle culture sia l'unico antidoto contro le devastazioni della globalizzazione e dell'imperialismo culturale.

giovedì 12 giugno 2008

Rom=Uomo

Dopo i fatti oltraggiosi degli ultimi giorni, dopo le violenze ripetute su comunità Rom e vergognosamente accettate come “risposta ad un malumore diffuso” o cercando di nascondersi dietro lo stereotipo razzista secondo il quale “gli zingari rubano i bambini” (non un solo caso accertato), mi sorge alla memoria come non sia affatto una novità: è un fatto nuovo, veramente dettato da qualche straordinario evento, che gli italiani (europei) non amino i Rom (extraterrestri), e a seguire albanesi, romeni, moldavi, marocchini, tunisini, libici, cinesi ecc. devo proseguire?? Io la trovo la più vecchia tra le vecchie muffe che ci continuiamo a trascinare dietro (e continuiamo anche a lisciarla perché ci teniamo al nostro pelo sulle spalle). Scusate ma quando è troppo è troppo. Tralasciando che le manifestazioni di questi giorni ai telegiornali, o meglio uni-giornali, sono state il più basso esempio di un italia (senza maiuscola) minacciata da un impoverimento culturale che fa tremare (nonne che danno fuoco a case, bambini che disegnano esultanti campi rom dati alle fiamme. E poi vanno a racimolare tra le briciole di ciò che resta, ndr.). No, non è cosa nuova che noi italiani non siamo ospitali, uno straniero lo squadriamo dalla testa ai piedi e immediatamente ci domandiamo dove abbiamo messo il borsellino (e poi l’erba del vicino è sempre più verde … ), come non è cosa nuova che non ci vergogniamo per niente che questo aspetto manchi nella nostra cultura (e questo è un buco oscuro della nostra mentalità, che meriterebbe però un’altra intera trattatistica). Basta che le cose vadano (forse) peggio, basta che nell’aria tiri qualche puzza strana ed ecco che il razzismo assopito (non troppo) nei nostri animi prende a fremere. E colpisce il nostro (caro, come faremo senza, dovremo rivolgerci a noi stessi) capro espiatorio. E’ lì, pronto a essere di nuovo largamente accettato, perché non è mai stato realmente abbattuto, è pronto a tornare sulle bocche di tutti, dal calzolaio al banchiere, che con aria sicura ripetono la pappardella sentita all’uni-giornale. In realtà non importa neanche tanto che sia Rom, magrebino o cinese, basta che sia un «diverso» e che sia abbastanza debole da non potersi difendere.
Credo comunque, anche se le cose sembrano sempre più nere, che ci sia ancora un’arma possibile, un’arma che non fa morti e non spara, è l’arma della parola. Della parola giusta che cerca di accendere un faro nella notte, per coloro che la vorranno seguire. Alexian Santino Spinelli ne accende per noi, è un Rom di origine abruzzese, musicista, poeta, compositore e docente di Lingua e cultura romaní presso l’Università di Trieste. Nella sua opera Spinelli spiega la storia del popolo romaní a partire dall’origine indiana e ripercorre le vicende dei suoi spostamenti e delle commistioni con le popolazioni in cui si è di volta in volta imbattuto. Il criterio che gli ha permesso di ricostruire questa lunga storia è linguistico: a partire da un accurato studio sulla lingua e degli apporti che l’hanno arricchita, l’autore risale le tappe della storia del suo popolo. L’intento è quello di smascherare i pregiudizi razzisti che pesano sui Rom e spiegare i motivi delle condizioni in cui versano ai giorni nostri (forse centriamo un po’ anche noi?). E può essere davvero interessante sentire una voce fuori dal coro dell’ uni-mente-giornale quotidiano. Ha scritto alcuni saggi tra cui “Baro Romano Drom. La lunga storia dei rom, sinti, kale, manouches e romanichals” (Meltelmi, Roma 2000) di cui voglio riportare alcuni brani:
“Le comunità romanès, note in molti paesi come «i calderai neri», non potevano sfuggire all’alone mitico che avvolgeva la lavorazione dei metalli. […] Le predilezioni e gli incantesimi, di cui le loro donne erano maestre, sconfinavano nel soprannaturale, un territorio in cui il clero non poteva tollerare indebite intrusioni. La popolazione romaní attirò su di sé l’attenzione della Santa Inquisizione […]. Anche il colore della pelle divenne un elemento di discriminazione. Nella mentalità occidentale il convincimento che il colore scuro fosse segno di inferiorità e malvagità era infatti radicata già da tempo. Il sospetto verso chi usava un vocabolario ignoto era generale, ma nel caso delle comunità romanès si associava al loro aspetto […]. In quel tempo, superato il periodo feudale che aveva frazionato l’antico Impero romano in contee e marchesati, si andavano strutturando i grandi Stati nazionali, i quali per incrementare l’unità del popolo e il loro controllo, tendevano ad escludere tutti coloro che apparivano «diversi» […]. Il vagabondo cominciava così a essere considerato un elemento di disturbo all’ordine sociale; quello che permise nel XV secolo alle comunità romanès di circondarsi di un’aureola di santità, divenne in breve motivo di condanna. […] Durante il XVI secolo si sviluppano in tutti i Paesi europei leggi repressive […]. Le comunità romanès divennero così i principali obbiettivi dei provvedimenti presi dai governi europei per tutelare l’integrità sociale. Se inizialmente i vari decreti, comminanti pene come l’allontanamento immediato, la fustigazione pubblica, il marchio a fuoco, il taglio del naso e delle orecchie, la galera a vita o la morte, miravano a colpire qualsivoglia categoria di erranti, col passare degli anni i provvedimenti si fecero sempre più circoscritti a sfavore dei gruppi romanès. Le deportazioni nelle colonie d’Africa, d’America e dell’Oceania furono provvedimenti che li coinvolsero ripetutamente. […] Scacciati da tutti gli Stati europei si fermarono a lungo nelle zone di confine, soprattutto dove queste offrivano rifugi naturali, nelle foreste o sulle montagne. La popolazione romaní, che non era arrivata in Europa con intenti bellicosi, né con le armi in pugno in cerca di conquiste, ma con la speranza di trovare una nuova patria a cui donare i prodotti delle proprie attività, fu costretta a vivere alla macchia e a essere privata di qualsiasi diritto con la conseguente condanna all’emarginazione sociale e culturale i cui effetti sono visibili ancora oggi. Le comunità romanès non potevano né volevano per cultura difendersi con la forza, così alle aggressioni esterne risposero ripiegando su atteggiamenti apparentemente umili, come la mendicità, atteggiamenti che in realtà celavano una forte volontà di resistenza e un’altrettanta forte ribellione pacifica.”[pp.36-38]
“[…] Gli stereotipi negativi hanno creato una vera e propria cappa sulla realtà romaní che diventa, oggi, sempre più soffocante. Tali stereotipi inculcano nell’opinione pubblica diffidenza e sospetti che non permettono il giusto incontro e un reciproco scambio umano e culturale fra le comunità romanès e le popolazioni locali.”[p.53]
“Noi stessi abbiamo commesso l’errore di accettare e usare la definizione di «zingaro» perché altrimenti non compresi dall’opinione pubblica, ma ci siamo ravveduti perché oggi, nell’era della comunicazione, dove le parole hanno una grande valenza e racchiudono insospettati scopi, non è più ammissibile compiere errori di tale portata. Se si vuole realmente migliorare la situazione del popolo romanó il termine «zingari» va superato e sostituito con «popolazione romaní», «popolo romanó», «comunità romanès» ecc […]. Alla definizione zingari spesso si sostituisce, come sinonimo, quella di nomadi presupponendo la volontà da parte della popolazione romaní di perpetuare una supposta vocazione al girovagare, designando quindi un tratto comune saliente: «nomadi per cultura». Anche questo è un gravissimo errore di valutazione e una distorsione di quella che è stata in realtà la volontà delle comunità romanès nel corso dei secoli passati. Il nomadismo come si è protratto in Europa è stato la conseguenza delle politiche persecutorie attuate in maniera decisa e sistematica da tutti gli Stati. Le comunità romanès sono state «costrette» ad essere girovaghe […]. Le comunità romanès, quindi, non per scelta, sono state obbligate a vivere alla macchia, lontane dalle città in una perenne situazione di disagio e di emarginazione e soprattutto private di qualsiasi diritto, a meno che non si assimilassero. La popolazione romaní ha disseminato sue comunità in tutto il mondo, dimostrando che quando esistono le giuste condizioni la sedentarizzazione non è assolutamente un problema, l’importante è essere rispettati e non assimilati, inseriti nel contesto sociale e non annullati.”[pp.55-56]

giovedì 5 giugno 2008

NOSTALGIA di BOUZIDY AZIZ (Marocco)

Cara madre, ti scrivo
e non so cosa scrivere
cosa vorresti sapere
non riesco più a trovare le parole/
lo sai che non ti posso mentire solo pensarlo
di colpo, la penna nelle mani diventa pesante e le parole.
Allora ti dico senza introduzione che vedo coi miei occhi
che posso dividere ancora il bene dal male,
e sbaglio come al solito i passi. Non lo crederesti/
cara madre che qui sono più che strano/
e che forse mi hai allevato
mal-educato
(qui cara madre
è cambiato il gioco le regole del gioco
qui si parla un altro linguaggio/
qui un altro orizzonte si nasconde (perché maiuscolo?)/
Mando la gente a "far in culo" uso le parolacce/
e il cazzo senza vergogna e pregiudizio,
avevi paura che qualcuno mi prendesse,
e che ti dimenticassi non ti preoccupare cara madre/
qui nessuno mi vuole.
Non sono più l'angelo azzurro
ho perso la spada e il cavallo,
e sinceramente non mi piace affatto quando/
e come sono stato schedato. Qui sono meno di una bestia/
e non merito neanche una grazia,
dicono che capisco solo il linguaggio dei cammelli/
e che nel mio cuore ho un gran rancore:/
tu lo crederesti madre?
Qui cara madre
siamo più o meno tutti uguali, lo sporco lava-vetri/
il delinquente spacciatore e il "vu cumprà" ignorante/
siamo tutti in uno e non siamo nessuno, pensieri smarriti
una memoria che ricorda del tempo la sua amarezza
della patria solo la sua bellezza e della notte solo la sua oscurità
e la sua lunghezza. Qui cara madre
siamo persi tra le cose aspettiamo un giorno/
che ci sembra vicino e non si avvicina mai.
Noi ci sentiamo rottame che cade fumo che scorre/
e sparisce non siamo la fiamma ma neanche la cenere,/
ci ricorderemo sempre che siamo maltrattati
in oriente e in occidente
solo perché la nostra storia è sporcata
dai nostri piccoli grandi sultani, e scritta da grandissimi/
bugiardi. Cara madre
dovunque siamo
la patria rimarrà la nostra causa la nostra ferita/
permanente quando l'avremo curata
il tè alla menta
lo gusteremo assieme.

da "Nuovo Planetario Italiano. Geografia e antologia della letteratura della migrazione in Italia e in Europa" a cura di A. Gnisci, Città Aperta Edizioni, 2006.

mercoledì 4 giugno 2008

"Poetiche africane" di A. Gnisci

Dopo le nefandezze della schiavitù, della colonizzazione, dell'apartheid, dell'emarginazione, come possiamo noi euroccidentali accostarci in modo autentico al continente africano e ai suoi abitanti e comprendere veramente le parole dei suoi scrittori? Armando Gnisci (docente di Letteratura comparata all'Università "La Sapienza" di Roma), che cura questa raccolta, ritiene che la via giusta per farlo sia quella "dell'ascesi e dell'oltranza". Ascesi significa per lui "scorticare il colono intellettuale che è in noi euroccidentali", come diceva Sartre. Oltranza vuol dire difendere -fino al rischio della propria identità- l'Africa, "terra dell'estremamente umano", dall'aggressione e dallo sfruttamento perpetrati dalla minoranza ricca del mondo. E andare dunque "a scuola" dagli africani: scuola del sapere, della cura, del ben vivere. La voce dell'Africa è giunta finora al mondo solo attraverso la letteratura e la musica. Gli autori dei saggi raccolti in questo volume, ci offrono una meravigliosa occasione di conoscenza del continente africano e delle sue poetiche.

"In viaggio con Erodoto" di Ryszard Kapuscinski

Un video su uno di suoi ultimi libri "In viaggio con Erodoto", 2005.


Ci sono uomini che lottano per rendere migliore questo mondo. Con l'unica arma possibile: la conoscenza, l'informazione, la verità. Uno di questi era Ryszard Kapuscinski, straordinario reporter di Mondo. Purtroppo la sua scomparsa recente (23 gennaio 2007) lascia un grande vuoto: pochi come lui sono riusciti ad essere "nel centro" degli eventi, "dentro" le trasformazioni, cosa che lo ha portato ad immedesimarsi dalla parte giusta, ovvero sempre dalla parte dell'umanità oppressa, sempre "attraverso gli occhi delle vittime".

E' L'ORA PLANETARIA DEI FUGGIASCHI di NELLY SACHS

E' l'ora planetaria dei fuggiaschi
E' la fuga travolgente dei fuggiaschi
Nella vertigine, la morte!

E' la caduta stellare della magica prigione
Del focolare, del pane, della soglia.

E' il frutto della conoscenza,
angoscia! Spento sole d'amore
in fumo! E' il fiore della fretta
stillante sudore! Sono i cacciatori
fatti di nulla, solo di fuga.

Sono i cacciati, che portano nelle tombe
I loro mortali nascondigli.

E' la sabbia, atterrita,
con ghirlande di commiato.
E' la terra che s'affaccia all'aperto,
il suo respiro mozzato
nell'umiltà dell'aria.

da "L'altro sguardo. Antologia delle poetesse del '900", a cura di G. D. Bonino e P. Mastrocola, Mondadori, Milano 1996.

lunedì 2 giugno 2008

PRIGIONE di YOGO NGANA NDJOCK

Vivere una sola vita,
in una sola città,
in un solo paese,
in un solo universo,
vivere in un solo mondo è prigione.

Amare un solo amico,
un solo padre,
una sola madre,
una sola famiglia,
amare una sola persona è prigione.

Conoscere una sola lingua,
un solo lavoro,
un solo costume,
una sola civiltà,
conoscere una sola logica è prigione.

Avere un solo corpo,
un solo pensiero,
una sola conoscenza,
una sola essenza,
avere un solo essere è prigione.

da "Foglie vive calpestate. Riflessioni sotto il baobab"
Edizioni UCSEI, Roma 1989.