giovedì 12 giugno 2008

Rom=Uomo

Dopo i fatti oltraggiosi degli ultimi giorni, dopo le violenze ripetute su comunità Rom e vergognosamente accettate come “risposta ad un malumore diffuso” o cercando di nascondersi dietro lo stereotipo razzista secondo il quale “gli zingari rubano i bambini” (non un solo caso accertato), mi sorge alla memoria come non sia affatto una novità: è un fatto nuovo, veramente dettato da qualche straordinario evento, che gli italiani (europei) non amino i Rom (extraterrestri), e a seguire albanesi, romeni, moldavi, marocchini, tunisini, libici, cinesi ecc. devo proseguire?? Io la trovo la più vecchia tra le vecchie muffe che ci continuiamo a trascinare dietro (e continuiamo anche a lisciarla perché ci teniamo al nostro pelo sulle spalle). Scusate ma quando è troppo è troppo. Tralasciando che le manifestazioni di questi giorni ai telegiornali, o meglio uni-giornali, sono state il più basso esempio di un italia (senza maiuscola) minacciata da un impoverimento culturale che fa tremare (nonne che danno fuoco a case, bambini che disegnano esultanti campi rom dati alle fiamme. E poi vanno a racimolare tra le briciole di ciò che resta, ndr.). No, non è cosa nuova che noi italiani non siamo ospitali, uno straniero lo squadriamo dalla testa ai piedi e immediatamente ci domandiamo dove abbiamo messo il borsellino (e poi l’erba del vicino è sempre più verde … ), come non è cosa nuova che non ci vergogniamo per niente che questo aspetto manchi nella nostra cultura (e questo è un buco oscuro della nostra mentalità, che meriterebbe però un’altra intera trattatistica). Basta che le cose vadano (forse) peggio, basta che nell’aria tiri qualche puzza strana ed ecco che il razzismo assopito (non troppo) nei nostri animi prende a fremere. E colpisce il nostro (caro, come faremo senza, dovremo rivolgerci a noi stessi) capro espiatorio. E’ lì, pronto a essere di nuovo largamente accettato, perché non è mai stato realmente abbattuto, è pronto a tornare sulle bocche di tutti, dal calzolaio al banchiere, che con aria sicura ripetono la pappardella sentita all’uni-giornale. In realtà non importa neanche tanto che sia Rom, magrebino o cinese, basta che sia un «diverso» e che sia abbastanza debole da non potersi difendere.
Credo comunque, anche se le cose sembrano sempre più nere, che ci sia ancora un’arma possibile, un’arma che non fa morti e non spara, è l’arma della parola. Della parola giusta che cerca di accendere un faro nella notte, per coloro che la vorranno seguire. Alexian Santino Spinelli ne accende per noi, è un Rom di origine abruzzese, musicista, poeta, compositore e docente di Lingua e cultura romaní presso l’Università di Trieste. Nella sua opera Spinelli spiega la storia del popolo romaní a partire dall’origine indiana e ripercorre le vicende dei suoi spostamenti e delle commistioni con le popolazioni in cui si è di volta in volta imbattuto. Il criterio che gli ha permesso di ricostruire questa lunga storia è linguistico: a partire da un accurato studio sulla lingua e degli apporti che l’hanno arricchita, l’autore risale le tappe della storia del suo popolo. L’intento è quello di smascherare i pregiudizi razzisti che pesano sui Rom e spiegare i motivi delle condizioni in cui versano ai giorni nostri (forse centriamo un po’ anche noi?). E può essere davvero interessante sentire una voce fuori dal coro dell’ uni-mente-giornale quotidiano. Ha scritto alcuni saggi tra cui “Baro Romano Drom. La lunga storia dei rom, sinti, kale, manouches e romanichals” (Meltelmi, Roma 2000) di cui voglio riportare alcuni brani:
“Le comunità romanès, note in molti paesi come «i calderai neri», non potevano sfuggire all’alone mitico che avvolgeva la lavorazione dei metalli. […] Le predilezioni e gli incantesimi, di cui le loro donne erano maestre, sconfinavano nel soprannaturale, un territorio in cui il clero non poteva tollerare indebite intrusioni. La popolazione romaní attirò su di sé l’attenzione della Santa Inquisizione […]. Anche il colore della pelle divenne un elemento di discriminazione. Nella mentalità occidentale il convincimento che il colore scuro fosse segno di inferiorità e malvagità era infatti radicata già da tempo. Il sospetto verso chi usava un vocabolario ignoto era generale, ma nel caso delle comunità romanès si associava al loro aspetto […]. In quel tempo, superato il periodo feudale che aveva frazionato l’antico Impero romano in contee e marchesati, si andavano strutturando i grandi Stati nazionali, i quali per incrementare l’unità del popolo e il loro controllo, tendevano ad escludere tutti coloro che apparivano «diversi» […]. Il vagabondo cominciava così a essere considerato un elemento di disturbo all’ordine sociale; quello che permise nel XV secolo alle comunità romanès di circondarsi di un’aureola di santità, divenne in breve motivo di condanna. […] Durante il XVI secolo si sviluppano in tutti i Paesi europei leggi repressive […]. Le comunità romanès divennero così i principali obbiettivi dei provvedimenti presi dai governi europei per tutelare l’integrità sociale. Se inizialmente i vari decreti, comminanti pene come l’allontanamento immediato, la fustigazione pubblica, il marchio a fuoco, il taglio del naso e delle orecchie, la galera a vita o la morte, miravano a colpire qualsivoglia categoria di erranti, col passare degli anni i provvedimenti si fecero sempre più circoscritti a sfavore dei gruppi romanès. Le deportazioni nelle colonie d’Africa, d’America e dell’Oceania furono provvedimenti che li coinvolsero ripetutamente. […] Scacciati da tutti gli Stati europei si fermarono a lungo nelle zone di confine, soprattutto dove queste offrivano rifugi naturali, nelle foreste o sulle montagne. La popolazione romaní, che non era arrivata in Europa con intenti bellicosi, né con le armi in pugno in cerca di conquiste, ma con la speranza di trovare una nuova patria a cui donare i prodotti delle proprie attività, fu costretta a vivere alla macchia e a essere privata di qualsiasi diritto con la conseguente condanna all’emarginazione sociale e culturale i cui effetti sono visibili ancora oggi. Le comunità romanès non potevano né volevano per cultura difendersi con la forza, così alle aggressioni esterne risposero ripiegando su atteggiamenti apparentemente umili, come la mendicità, atteggiamenti che in realtà celavano una forte volontà di resistenza e un’altrettanta forte ribellione pacifica.”[pp.36-38]
“[…] Gli stereotipi negativi hanno creato una vera e propria cappa sulla realtà romaní che diventa, oggi, sempre più soffocante. Tali stereotipi inculcano nell’opinione pubblica diffidenza e sospetti che non permettono il giusto incontro e un reciproco scambio umano e culturale fra le comunità romanès e le popolazioni locali.”[p.53]
“Noi stessi abbiamo commesso l’errore di accettare e usare la definizione di «zingaro» perché altrimenti non compresi dall’opinione pubblica, ma ci siamo ravveduti perché oggi, nell’era della comunicazione, dove le parole hanno una grande valenza e racchiudono insospettati scopi, non è più ammissibile compiere errori di tale portata. Se si vuole realmente migliorare la situazione del popolo romanó il termine «zingari» va superato e sostituito con «popolazione romaní», «popolo romanó», «comunità romanès» ecc […]. Alla definizione zingari spesso si sostituisce, come sinonimo, quella di nomadi presupponendo la volontà da parte della popolazione romaní di perpetuare una supposta vocazione al girovagare, designando quindi un tratto comune saliente: «nomadi per cultura». Anche questo è un gravissimo errore di valutazione e una distorsione di quella che è stata in realtà la volontà delle comunità romanès nel corso dei secoli passati. Il nomadismo come si è protratto in Europa è stato la conseguenza delle politiche persecutorie attuate in maniera decisa e sistematica da tutti gli Stati. Le comunità romanès sono state «costrette» ad essere girovaghe […]. Le comunità romanès, quindi, non per scelta, sono state obbligate a vivere alla macchia, lontane dalle città in una perenne situazione di disagio e di emarginazione e soprattutto private di qualsiasi diritto, a meno che non si assimilassero. La popolazione romaní ha disseminato sue comunità in tutto il mondo, dimostrando che quando esistono le giuste condizioni la sedentarizzazione non è assolutamente un problema, l’importante è essere rispettati e non assimilati, inseriti nel contesto sociale e non annullati.”[pp.55-56]

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