venerdì 2 marzo 2012

ALDA MERINI

Io non ho bisogno di denaro 
ho bisogno di sentimenti
di parole
di parole scelte sapientemente
di fiori detti pensieri
di rose dette presenze
di sogni che abitino gli alberi
di canzoni
che facciano danzare le statue
di stelle che mormorino
all'orecchio degli amanti.
Ho bisogno di poesia
questa magia che brucia
la pesantezza delle parole
che risveglia
le emozioni e dà colori nuovi.

martedì 15 marzo 2011

La cipolla di Wislawa Szymborska

La cipolla è un'altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore,
potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore.

In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d'inferno,
violenta anatomia,
ma nella cipolla - cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.

Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell'una ecco sta l'altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un'eco in coro composta.

La cipolla, d'accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi - grasso, nervi, vene,
muchi e secrezioni.
E a noi resta negata
l'idiozia della perfezione.

giovedì 3 marzo 2011

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Cesare Pavese

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

venerdì 18 febbraio 2011

Cocotte di Guido Gozzano

I.
Ho rivisto il giardino, il giardinetto
contiguo, le palme del viale,
la cancellata rozza dalla quale
mi protese la mano ed il confetto...

II.
«Piccolino, che fai solo soletto?»
«Sto giocando al Diluvio Universale.»

Accennai gli stromenti, le bizzarre
cose che modellavo nella sabbia,
ed ella si chinò come chi abbia
fretta d'un bacio e fretta di ritrarre
la bocca, e mi baciò di tra le sbarre
come si bacia un uccellino in gabbia.

Sempre ch'io viva rivedrò l'incanto
di quel suo volto tra le sbarre quadre!
La nuca mi serrò con mani ladre;
ed io stupivo di vedermi accanto
al viso, quella bocca tanto, tanto
diversa dalla bocca di mia Madre!

«Piccolino, ti piaccio che mi guardi?
Sei qui pei bagni? Ed affittate là?»
«Sì... vedi la mia mamma e il mio Papà?»
Subito mi lasciò, con negli sguardi
un vano sogno (ricordai più tardi)
un vano sogno di maternità...

«Una cocotte!...»
«Che vuol dire, mammina?»
«Vuol dire una cattiva signorina:
non bisogna parlare alla vicina!»
Co-co-tte... La strana voce parigina
dava alla mia fantasia bambina
un senso buffo d'ovo e di gallina...

Pensavo deità favoleggiate:
i naviganti e l'Isole Felici...
Co-co-tte... le fate intese a malefici
con cibi e con bevande affatturate...
Fate saranno, chi sa quali fate,
e in chi sa quali tenebrosi offici!

III.
Un giorno - giorni dopo - mi chiamò
tra le sbarre fiorite di verbene:
«O piccolino, non mi vuoi più bene!...»
«È vero che tu sei una cocotte?»
Perdutamente rise... E mi baciò
con le pupille di tristezza piene.

IV.
Tra le gioie defunte e i disinganni,
dopo vent'anni, oggi si ravviva
il tuo sorriso... Dove sei, cattiva
Signorina? Sei viva? Come inganni
(meglio per te non essere più viva!)
la discesa terribile degli anni?

Oimè! Da che non giova il tuo belletto
e il cosmetico già fa mala prova
l'ultimo amante disertò l'alcova...
Uno, sol uno: il piccolo folletto
che donasti d'un bacio e d'un confetto,
dopo vent'anni, oggi ti ritrova

in sogno, e t'ama, in sogno, e dice: T'amo!
Da quel mattino dell'infanzia pura
forse ho amato te sola, o creatura!
Forse ho amato te sola! E ti richiamo!
Se leggi questi versi di richiamo
ritorna a chi t'aspetta, o creatura!

Vieni! Che importa se non sei più quella
che mi baciò quattrenne? Oggi t'agogno,
o vestita di tempo! Oggi ho bisogno
del tuo passato! Ti rifarò bella
come Carlotta, come Graziella,
come tutte le donne del mio sogno!

Il mio sogno è nutrito d'abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
che potevano essere e non sono
state... Vedo la case, ecco le rose
del bel giardino di vent'anni or sono!

Oltre le sbarre il tuo giardino intatto
fra gli eucalipti liguri si spazia...
Vieni! T'accoglierà l'anima sazia.
Fa ch'io riveda il tuo volto disfatto;
ti bacierò; rifiorirà, nell'atto,
sulla tua bocca l'ultima tua grazia.

Vieni! Sarà come se a me, per mano,
tu riportassi me stesso d'allora.
Il bimbo parlerà con la Signora.
Risorgeremo dal tempo lontano.
Vieni! Sarà come se a te, per mano,
io riportassi te, giovine ancora.

lunedì 14 febbraio 2011

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari  

e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei

e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti,

ed io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me,

e non c'era rimasto nessuno a protestare.

Bertold Brecht

martedì 24 novembre 2009

"Seppure sul più prestigioso trono del mondo siamo sempre comunque seduti sul nostro culo" Montaigne [III,13]

C'erano uomini che avevano capito. Anche allora c'era qualcuno che si domandava, forse più di noi ora, se la strada che stavamo percorrendo fosse legittima, e giusta. Uomini che sono i nostri maestri. Uno di questi è Michel Montaigne. Scriveva nell'inoltrato 1500, solo qualche decennio dopo la "scoperta" del Nuovo Mondo, in una delle opere più suggestive e geniali di tutti i tempi, gli "Essais":

"Dalla pratica del mondo si ricava una meravigliosa chiarezza per giudicare gli uomini. Siamo tutti gretti e chiusi in noi stessi e non riusciamo a vedere più in là del nostro naso. Domandarono a Socrate di dove fosse. Non rispose "di Atene" ma "del mondo". Lui che aveva uno spirito ricco e capace di una visione ampia della vita, abbracciava l'universo come la sua città, estendeva le sue conoscenze, la sua solidarietà e i suoi affetti a tutto il genere umano, non come noi che guardiamo soltanto al nostro ombelico." [I,26]

e ragionava ancora:

"Ci siamo valsi della loro ignoranza e inesperienza [dei popoli sottosviluppati] per portarli con maggiore facilità sulla strada del tradimento, della lussuria, della bramosia e di ogni altra sorta di efferatezza e crudeltà, sul modello dei nostri costumi. Chi ha mai assegnato un simile prezzo all'utilità dei commerci e dei traffici? Tante città rase al suolo, tante popolazioni annientate, milioni di uomini passati per le armi e la più ricca e bella parte del mondo sconvolta per il commercio delle perle e del pepe! Vittorie scellerate!" [III,6]

"La povertà dei beni può essere risanata ma guarire la povertà dell'anima è impossibile" [III,10]

mercoledì 15 luglio 2009

L’isola di Arturo di Elsa Morante (1957)

Arturo Gerace, guerresco ragazzo dal nome di una stella, nasce a Procida da padre di sangue misto, tedesco e italiano (la madre, morta di parto, la conosciamo solo attraverso una fotografia ingiallita). Vive lunghi anni beati tra spiagge e scogliere, pago di sogni fantastici, insieme alla sua cagna Immacolatella e una barca fregiata di titolo piratesco. Non si cura di vestiti né di cibi. E’ stato allevato con latte di capra da un “balio” di nome Silvestro, ormai lontano. La vita per lui è promessa solo di imprese e di libertà assoluta. Un idolo irraggiungibile la vichinga immagine paterna: Wilhelm Gerace, col fazzolettone a fiorami annodato intorno al collo e gli eterni pantaloni scoloriti e pieni di sole. Parte e arriva sempre inatteso, il padre di Arturo, tiene valigia con lo spago, gira l’isola in sandali, dio distratto e crucciato, corsaro di barba incolta, di lunghi capricciosi riposi irrequieti. Sporchissima, a picco sul mare, la disammobiliata abitazione di Arturo, antico convento di frati. Vi crescono erbacce, vi corrono lucertole e la polvere s’ammucchia. Ma non esiste immondizia sull’isola.
In questo libro troviamo le sue memorie, dall’idillio solitario alla scoperta della vita: l’amore, l’amicizia, il dolore, la disperazione. Come descriverlo meglio se non riportandone un passo, uno tra i miei più amati, tra i tanti amati…


Guapperie inutili

I libri che mi piacevano di più, è inutile dirlo, erano quelli che celebravano, con esempi reali o fantastici, il mio ideale di grandezza umana, di cui riconoscevo in mio padre l’incarnazione vivente.
S’io fossi stato un pittore, e avessi dovuto illustrare i poemi epici, i libri di storia ecc., credo che, nelle vesti dei loro eroi principali, avrei sempre dipinto il ritratto di mio padre, mille volte. E per cominciare l’opera, avrei dovuto sciogliere sulla mia tavolozza una quantità di polvere d’oro, in modo da colorare degnamente le chiome di quei protagonisti.
Come le ragazzine si figurano le fate bionde, le sante bionde e le regine bionde, io mi figuravo i grandi capitani e guerrieri tutti biondi, e somiglianti, come fratelli, a mio padre. Se in un libro un eroe che mi piaceva risultava, dalle descrizioni, un tipo moro, di statura mezzana, io preferivo credere a uno sbaglio dello storico. Ma se la descrizione era documentata, e proprio indubbia, quell’eroe mi piaceva meno, e non poteva essere più il mio campione ideale.
Quando Wilhelm Gerace si rimetteva in viaggio, ero convinto che partisse verso azioni avventurose ed eroiche: gli avrei creduto senz’altro se m’avesse raccontato che muoveva alla conquista dei Poli, o della Persia come Alessandro il Macedone; che aveva ad attenderlo, di là dal mare, compagnie di prodi al suo comando; che era uno sgominatore di corsari o di banditi, oppure, al contrario, che lui stesso era un grande Corsaro, o un Bandito. Lui non faceva mai parola sulla sua vita fuori dell’isola; e la mia immaginazione si struggeva intorno a quell’esistenza misteriosa, affascinante, a cui, naturalmente, lui mi stimava indegno di partecipare. Il mio rispetto della sua volontà era tale che non mi permettevo, neanche in pensiero, l’intenzione di spiarlo, o seguirlo, di nascosto; e non osavo neppure d’interrogarlo. Volevo conquistare la sua stima, e magari la sua ammirazione, sperando che un giorno, finalmente, lui m’avrebbe scelto per suo compagno nei viaggi.
Intanto, quand’eravamo insieme, cercavo sempre l’occasione di mostrarmi valoroso e impavido ai suoi occhi. Attraversavo a piedi nudi, quasi volando sulle punte, le scogliere arroventate dal sole; mi tuffavo nel mare dalle rocce più alte; mi davo a straordinarie acrobazie acquatiche, a esercizi vistosi e turbolenti, e mi mostravo esperto in ogni sistema di nuoto, come un campione; nuotavo sott’acqua fino a perdere il fiato, e riaffiorando riportavo delle prede sottomarine: ricci, stelle di mare, conchiglie. Ma inutilmente, spiando verso di lui da lontano, io cercavo nel suo sguardo l’ammirazione, o almeno l’attenzione. Sedeva a riva senza badarmi; e appena io, disinvolto, fingendomi noncurante delle mie imprese, lo raggiungevo di corsa e mi gettavo sulla sabbia presso di lui: lui si levava con una mollezza capricciosa, gli occhi distratti e la fronte corrugata, come se ascoltasse un invito misterioso, mormoratogli all’orecchio. Alzava le braccia pigre; si lasciava, steso sul fianco nel mare. E si allontanava nuotando lento lento, quasi abbracciato al mare, al mare come a una sposa.

domenica 5 luglio 2009

Riflessione sulla "barbarie" della propria provenienza

"Cosa c'è di strano se sono siriano?
Straniero, noi dimoriamo in un solo paese, il mondo (Kosmos):
un unico abisso (Chaos) diede la nascita a tutti i mortali".

Prefazione di Meleagro di Gadara (fine II sec inizio I sec a.C.) alla sua antologia di liriche d'amore "romantico", la "Ghirlanda", che avrà vastissima influenza sulla poesia romana in età repubblicana e augustea.

Viaggiatore o colonizzatore?

Pensiamo al “Robinson Crusoe” (1719), paradigma letterario perfetto per un certo tipo di viaggiatore. Defoe aveva tratto la sua storia da un episodio realmente accaduto qualche anno prima: un marinaio scozzese venne abbandonato dai compagni su una piccola isola di un arcipelago al largo della costa cilena, dove visse per quattro anni in completa solitudine, fino a quando una nave di passaggio non lo riportò a casa. Nel 1712 uscì un libro del comandante che aveva prelevato il marinaio dall’isola, nello stesso anno la storia comparve anche in un opuscolo firmato Isaac James. Defoe fu l’autore che meglio di ogni altro trasformò le disavventure reali di un marinaio scozzese in un’opera della fantasia, tessendo sulla storia reale un romanzo che divenne rapidamente un “classico” della letteratura occidentale. Il motivo di tanta fortuna è che si presta a diverse letture, e l’opera si rivela preziosa anche per il discorso che a noi interessa: la riflessione “sull’incontro con l’altro”. L’incontro con l’altro di Robinson ha per oggetto un indigeno ribattezzato Venerdì, che Crusoe aveva salvato dal sacrificio di altri indigeni antropofagi. E subito la narrazione di Defoe ci propone un modello di pregiudizio di un uomo occidentale degli inizi del ‘700 nei confronti della natura e delle altre culture. Insomma Robinson Crusoe incarna perfettamente le aspirazioni e le strutture etico - religiose del suo mondo. Naufraga sull’isola vestito come un perfetto cittadino inglese, con i suoi strumenti, le sue armi e soprattutto con la lettura, la Bibbia, e sull’isola sa ricostruire in piccolo e molto fedelmente le strutture religiose, etiche, sociali, economiche e perfino amministrative dell’Inghilterra puritana e protestante che ha lasciato. Salva un uomo dal barbaro rito cannibalesco, spara colpi di fucile contro uomini e animali, fa esplodere dell’esplosivo per modificare il territorio, instaura un rapporto basato sulla forza e sulla sopraffazione con l’ambiente che lo circonda. Robinson è
un viaggiatore che non si fa cambiare dal suo viaggio, ma al contrario trasforma il luogo e l’altro che incontra, li costringe a somigliargli. L’isola diventa il suo dominio, gli altri saranno i nemici da temere e combattere, il migliore di loro, Venerdì, diventerà suo schiavo.
Un naufragio meno celebre ma vissuto realmente dall’autore di “Naufragios” (1542), lo spagnolo Alvar Nuňez Cabeza de Vaca, avvenne sulle coste dell’attuale Florida ed è tale da costituire l’esatto rovesciamento di quello di Crusoe. Cabeza de Vaca, al contrario di Robinson, perde nel naufragio tutti gli strumenti della sua civiltà, i vestiti, le armi, gli specchietti e le collanine, che dovevano incantare gli indigeni durante il viaggio di conquista: “Ci trovammo nudi come il giorno in cui venimmo al mondo, privi di quelle poche cose che, in quel frangente, per noi significavano tutto”. Vivrà in una tribù di indios per sette anni, aprendosi alla loro cultura al punto di diventarne elemento fondamentale, lo sciamano. L’integrazione con la sua cultura d’adozione è tale che Cabeza de Vaca arriverà a distinguere, verso la fine del suo racconto, un “noi”, lui e gli indios, e un “loro”, i vecchi connazionali spagnoli, sentiti ormai come estranei. Se Robinson riuscì a conquistare lo spazio incontrato, Cabeza de Vaca ne venne conquistato; se quello aveva asservito l’altro alle proprie convenienze e teorie, questo si era messo al suo servizio; mentre quello imponeva la sua cultura su un’altra ritenuta inferiore, questo la apriva al confronto e, pur senza mai rinnegarla, ne accettava le contaminazioni.

Non è solo la nostra intelligenza a farci percepire come migliore il secondo tipo di viaggiatore, ma la stessa parola “viaggio”, la cui origine richiama un elemento fondamentale: “viaggio” deriva dal provenzale “viatge”, a sua volta derivato dal latino “viaticum”, che designava originariamente gli “alimenti necessari per compiere la via”. “Viaggio” è quindi “ciò che viene consumato durante la strada”. Si dà al tutto il nome di una sua parte, una sineddoche che serve per illuminare uno degli aspetti più importanti del viaggio: perché un viaggio sia tale non basta considerare il puro spostamento che un individuo compie da un luogo all’altro, ma è necessario osservare cosa abbia alimentato il suo percorso, quale sia stato lo scambio avvenuto per strada, in altre parole, come l’esperienza del viaggio, cioè la scoperta dell’altrove, sia stata recepita e trasformata. La parola inglese “travel” il cui significato è “viaggio” conserva nell’etimologia qualcosa di doloroso: “tripalium” era il nome di uno strumento di tortura, così chiamato perché formato da tre pali. La parola assume quindi connotazione di sofferenza e castigo, come anche nell’italiano “travaglio”, ossia “tormento” e “fase preliminare del parto”. Anche il verbo italiano “partire” conserva nell’etimologia il sostantivo latino “pars”,”partis”, cioè “parte”,“frazione” quindi “distacco”, ma dalla stessa radice ha origine il verbo latino “parere” ossia “partorire”. Le sovrapposizioni travel/travaglio, partire/partorire sembrano paradossi linguistici, ma in realtà costituiscono un nucleo concettuale fondamentale attraverso il quale si organizza l’esperienza del viaggio: che è quella della ri-nascita sotto una forma diversa, data dall’esperienza dell’altrove e dall’incontro con l’altro. Cosa che sappiamo da tempo, nella tradizione del’Occidente giudaico-cristiano è infatti da sempre in cammino la figura di un viaggiatore immortale, ma quello che sembrerebbe un privilegio, vivere in eterno, assume la valenza di un terribile castigo: l’Ebreo errante, colpevole di aver oltraggiato Dio, è costretto a vagare senza meta e senza tempo fino al giorno del Giudizio. L’immortalità si trasforma in condanna, in quanto sottrae il viaggio al dominio normale dell’esperienza. Chi non può morire non potrà nemmeno ri-nascere; se l’esperienza non riesce a trasformare e rinnovare l’individuo, la condanna al moto perpetuo finirà con l’equivalere alla perfetta immobilità.

Purtroppo il prototipo di viaggiatore che meglio rappresenta la nostra civiltà europea-occidentale è ancora il “magnifico” Robinson Crusoe, che, nella nostra ottica, è l’eroe che ha sconfitto e contemporaneamente salvato il barbaro selvaggio, portando con le regole e la razionalità europea un po’ di “umana civiltà” in un mondo lontano, brutale e pericoloso. Colui che, dall’alto della propria superiorità di strumenti e mezzi, si è sentito a casa in entrambi i mondi, non perché si è aperto a tutti e due, ma perché il secondo l’ha distrutto e ricostruito come facsimile e copia del primo. Un viaggiatore superbo e chiuso, cieco e sordo, in definitiva, non un viaggiatore ma un colonizzatore.

giovedì 2 luglio 2009

Anche la Grecia è africana e mediorientale

L’idea di una “Milano nera” del articolo precedente mi ha risvegliato il pensiero di una intera civiltà “nera” che però tende a sbiancarsi: la nostra, europea - occidentale. E’ solo dagli anni ’80 che alcuni studiosi di letteratura europea hanno iniziato un percorso critico nei confronti della propria disciplina, e le conclusioni sono disincantate: il mito delle origini greche della cultura occidentale, è, appunto, un mito, elaborato prima nel Rinascimento ma soprattutto dalla filologia tedesca d’ottocento. Martin Bernal lo chiama “modello ariano” secondo il quale il “miracolo” della civiltà greca avrebbe appunto un origine autoctona, idea costituita e portata avanti da “studiosi accumunati da pregiudizi antisemiti e razzisti”, il modello si sarebbe poi imposto all’opinione pubblica.
Oggi, per quasi due secoli ci hanno insegnato a scuola lingua, letteratura, filosofia, pensiero greco, di cui il latino sarebbe diretta discendenza ed espansione. Scrive Arnaldo Momigliano in “Saggezza straniera” – “Siamo effettivamente riusciti a dimenticare il debito che abbiamo verso celti, germani e arabi. Non ci è invece mai permesso di dimenticare quello verso la Grecia, Lazio e la Giudea”. Insomma l’obliterazione semicosciente di vasta area di civiltà nell’orizzonte culturale e formativo dell’occidente.
Secondo Bernal gli stessi greci erano coscienti della provenienza egizia, dunque africana, e fenicia, dunque semitica, di elementi e fattori determinanti della cultura greca, quali nomi di luoghi e persone, l’alfabeto, molte narrazioni mitologiche, alcuni aspetti del pensiero filosofico. La democrazia greca, che noi sentiamo alla base concezioni politiche occidentali, sarebbe stata anticipata dall’assemblea dei liberi in età sumerica, e alcuni teoremi attribuiti a Pitagora sarebbero già stati scoperti dai babilonesi già nel II millennio a.C. Molti mitologhemi greci, come la castrazione del padre divino da parte del figlio (Crono) o come l’intera epopea odissiaca, trovano antecedenti e paralleli in narrazioni mesopotamiche, urrite o ittite: l’intera “Teogonia” di Esiodo dipende, come è ormai accettato anche sui manuali scolastici, dal poema accadico “Enûma elish”, II millennio a.C.

Sottolineando che “La Grecia è parte dell’Asia, e la letteratura greca è una letteratura mediorientale” (M.L.West) e che quindi dobbiamo abituarci all’idea dell’esistenza di una koiné nel mediterraneo orientale, di cui la cultura greca, culla dell’occidente, è una delle tante espressioni e spesso non la prima; non voglio di certo con questo togliere valore all’antichità greca, forse aggiungerlo facendo perno sulla multiculturalità della Grecia antica, con gli apporti mediorientali e africani. Più volte ho ripetuto in questo blog come io sostenga una poetica del diverso, nel senso, come intendeva Glissant, di una “Poetica della Relazione”, relazione con l’Altro che rende molto più concreto il nostro astratto “essere” e sempre con lui che “tutto il mondo si creolizza, tutte le culture sono in contatto con tutte la altre e non è possibile impedire continui scambi”, solo continua Glissant, ci sono due tipi di culture: quelle ataviche dove la creolizzazione è avvenuta tanto tempo fa e oggi tendono a considerarsi entità a sé stanti, e quelle composite dove è avvenuta più recentemente e hanno minor difficoltà a riconoscersi come meticcie, “le culture ataviche difendono in maniera spesso drammatica lo statuto della loro identità a radice unica, per la concezione sublime e mortale che i popoli d’Europa hanno veicolato in tutto il mondo, ovvero che ogni identità è un’identità a radice unica, che esclude ogni altra. Questa visione si oppone alla nozione reale nelle culture composite dell’identità come fattore e risultato di una creolizzazione, e quindi dell’identità come rizoma, radice che si incontra con altre radici”.
Ecco cosa ritengo valga di più: una visione reale e integra, non preconcetta sul mondo.

A chi interessa, piccolo excursus di paralleli e paragoni letterari tra poesia greca arcaica e poesia del Vicino Oriente ripresi dal colossale studio degli ultimi anni di Martin L. West “The East Face of Helicon”:
- Metafore come “cuor di leone” e “duro come pietra” sono comuni a tutta l’area mediterranea
- Il raro aggettivo omerico “anemo’ios”, “ventoso” nel senso di “vano” sembra avere paralleli non in greco classico ma nell’epoca semitica
- L’immagine “fuoco che mangia” o l’anafora “vidi… vidi” o “vedemmo… vedemmo”, usuale dall’Odissea a Rimbaud, ha precedenti nella versione medio babilonese del Diluvio universale
- L’uso di figure come l’epanalessi, ben attestata in documenti ugaritici
- Moduli descrittivi come “C’è una città chiamata…” sono sia omerici che ittiti e gilgameshiani
- Alcune esclamazioni greche, come “aiai”, sembrano venire da lingue semitiche
- Paragoni poetici come “Amore mi scuote come il vento un albero” si trovano in Saffo ma anche in Isaia o la formula interrogativa “a chi potrò paragonarti” si riscontra nella poetessa di Lesbo ma anche in Ezechiele
- L’uso in funzione comparativa della preposizione “di” (fiori d’oro) presente già in Pindaro ha attestazioni nell’epos di Gilgamesh

domenica 7 giugno 2009

Perché Milano è davvero africana


Ciao. Noto con tristezza che l'ultimo post è ormai vetusto e datato gennaio 2009! E' ora di ricominciare a scrivere e per l'occasione voglio postare un bell'articolo di Rinaldo Gianola sull'immigrazione a Milano, tratto dal sito de L'Unità il 6 giugno 2009. Buona lettura.



Ci sono così tanti immigrati in giro per le strade che Milano sembra una città africana, si lamenta Silvio Berlusconi. E ha ragione. Milano è davvero un po’ africana, ma non solo: è rumena, egiziana, cinese, ucraina, filippina e molto altro ancora. Milano è il luogo dell’immigrazione, della secolare accoglienza, a volte contrastata e spesso violenta, di tutte le etnie possibili, e prima che diventasse il paradigma del volgare governo della destra e della Lega questa era anche la città che offriva l’occasione dell’emancipazione e del riscatto a milioni di “diversi” che cercavano fortuna sotto le guglie del Duomo.

Berlusconi è un milanese, nato nel quartiere popolare dell’Isola, a pochi metri di distanza dalla storica sede dei comunisti di via Volturno. Poi ha frequentato l’istituto dei Salesiani, ma pare aver dimenticato tutto. Sarà colpa della “gnocca”, come spiega Libero, o degli effetti collaterali delle pozioni miracolose che promettono l’eterna giovinezza, ma il premier ha rimosso la storia e i suoi ricordi. Forse dovrebbe chiedere aiuto all’amico Fedele Confalonieri il quale potrebbe ricordargli la "casbah" attorno alla Stazione Centrale, le “coree” proletarie delle periferie, l’invasione dei “terroni” che consumavano la vita nelle fabbriche della cintura nord. Tutti immigrati, deboli, umili e con un gran voglia di farcela. Come Weah, ex centravanti molto “abbronzato” del Milan.

Milano è africana e molto altro ancora perchè qui la Chiesa è storicamente aperta e tollerante. In questa città, agli albori del cristianesimo, l’africano, africano per davvero, Sant’Agostino viene convertito e battezzato da Sant’Ambrogio, il patrono della città. Federico Borromeo spediva i suoi inviati in giro per il mondo ad acquistare i Codici arabi, i testi dell’Islam, a cercare e conoscere le culture diverse, quelle lontane dal cristianesimo. Questi volumi erano curati, studiati, conservati e oggi quel patrimonio è custodito in quel gioiello che è la Biblioteca Ambrosiana dove vengono ospitati a studiare neri e perfino musulmani. Questo è il Dna della Milano africana che fa paura oggi a Berlusconi e ai suoi sodali leghisti. Il consigliere Salvini della Lega che propone carrozze e posti della metropolitana riservati ai milanesi dovrebbe essere costretto a studiare per qualche anno all’Ambrosiana.

Milano è africana perchè è una città che ha prosperato sull’immigrazione. E questo fenomeno non è finito, continua, si allarga, spaventa ma si perpetua. Su quattro milioni di persone che ogni giorno vivono e lavorano a Milano circa il 10% sono immigrati ma probabilmente la percentuale vera, quella che sfugge alle statistiche ufficiali, è più alta. Le colf filippine, le badanti ucraine, i ristoratori cinesi, i muratori rumeni, i facchini latino americani, i siderurgici africani, fanno funzionare le aziende e le famiglie, alimentano lo sviluppo, questa è la realtà come avviene a Londra, Parigi e Berlino.

Oggi se l’immigrazione, se Milano africana fanno paura è perchè manca un governo dell’accoglienza, perchè si pensa che solo le legnate possano produrre risultati, perchè il vice sindaco De Corato annuncia che su 25 stupri ben 23 sono responsabilità di extracomunitari ma dimentica di chiedere alla Procura l’elenco delle violenze consumate tra le serene mura domestiche degli italiani. Sui giornali finiscono solo i rom. Si vorrebbe che gli immigrati andassero a lavorare in fabbrica, ma poi sparissero ai nostri occhi per non disturbare. Così si spiega che in una metropoli ricca e opulenta come Milano la comunità islamica non abbia ancora un posto per la preghiera. E magari sarà costretta a rioccupare il marciapiede di viale Jenner.

L’anno scorso, durante una puntata dell’Infedele di Gad Lerner, una bella signora africana, spiegando la sua vita, disse: «Noi ci prendiamo cura degli italiani». È vero, è una frase perfetta se solo fossimo capaci di capire.

giovedì 1 gennaio 2009

La barzelletta delle intercettazioni telefoniche, un caso emblematico di "necessità dei potenti truffaldini".

Con l'arrivo dell'anno nuovo voglio sottoporvi una serie di quesiti che attanagliano la mia mente dal momento in cui il nostro signor Premier ha iniziato a sviolinare la serie di interventi che intende portare avanti in questo nostro nuovo 2009 (che invece noi non vogliamo farci rovinare). A parer mio (ma sarò sola?) Berlusconi intende continuare a distruggere il nostro Paese, dandogli addirittura il cacio falloso per portarlo alla disfatta finale.
Allora sì che il nostro Bel Paese potrà dirsi davvero finito, in mano alla corruzione, premiata, e quindi sempre più dilagante, a un potere corrotto e truffaldino: politici, giudici, forze di polizia ma anche "semplici" imprenditori o amministratori. Tanto il nostro è sempre stato e sarà il Paese dei fubetti e dei voltafaccia, dei moralisti di facciata e dell' "arraffa-arraffa che tanto nessuno ti fa niente" (se hai i soldi e qualche buon intermediario). Il Paese dove "lo fanno tutti" funge da intensa giustificazione morale e dove, se ti tovi nei guai con la giustizia, puoi sempre reclamare un ingiusto giustizialismo (che ossimoro efficace) proprio nei tuoi confronti (chissà se il ventenne spacciatore, preso con le mani nel sacco, potrà cercare di difendersi davanti ai giudici dicendo che la polizia però lo seguiva da mesi, forse da anni...come dire, si può chiudere un occhio ogni tanto, anche due). E ciò sembra non scuotere la coscienza di molti.
Va bene, ora andiamo al punto Berlusconi promette per il nuovo anno, riforme sulla giustizia, sui processi civili e penali, oltre che sulle intercettazioni telefoniche. E' quest'ultimo punto che mi ha fatto fare un, nuovo, enorme salto sulla sedia.
Rispuntano tra i "grandi" problemi del Paese le intercettazioni telefoniche. Sembra una barzelletta non è vero? In primo luogo mi chiedo come fa, con quale enorme potere, Belusconi sia riuscito, ok dopo averne parlato in tv diverse volte, a far credere alla gente comune, ma non solo (anche Vespa, mentre continua a servirsene per alcuni processi che segue nel suo "Porta a Porta" come il delitto di Cogne o di Erba, ripete come sia fondamentale limitarle) che le intercettazioni telefoniche siano un grosso problema del Paese, al punto che le stesse persone comuni debbano essere all'erta, perchè potrebbero essere spiate e intercettate in qualsiasi momento. Ma perfavore! Sarà mai possibile una cosa del genere? Capisco che la mia vicina abbia manie di grandezza ma non credevo davvero che la gente fosse così stupida. E, per riprendere il discorso di prima, su come il nostro Paese premi e sia fedele ai furbetti e moralisti di facciata, sarebbe grave essere intercettati perchè "ce ne sono pochi con la coscienza a posto".
Insomma come a dire che se sei un onesto cittadino italiano che paga le sue tasse e fa il suo lavoro onestamente dovresti preoccuparti di qualcosa! Io farò parte di quella "piccola" parte di italiani che si sentono tranquillamente a posto con se stessi e che non me ne sbatte un tubo delle intercettazioni telefoniche, nel senso che le ritengo molto utili per certi tipi di misfatti, sopratutto quelli legati alle alte sfere, politiche o ecomoniche che siano, visto che si sono dimostrate, in quegli ambiti, le uniche ricerche efficaci. Ricordo, solo così per sfizio, Bancopoli, Calciopoli, clinica horror Santa Rita, Sismi deviato, Tangentopoli a Firenze, Pescara, Napoli, Potenza. Appare lampante a questo punto come le intercettazioni telefoniche siano sì un grosso problema, ma solo per quei potenti che, con i soldi possono comprare tutto, ma non possono (sempre con quelli) cancellare loro parole ormai registrate.
Come ha detto il nostro Premier le intercettazioni telefoniche potranno essere utilizzate solo per i reati maggiori, sopra i 15 anni di reclusione, come il terrorismo internazionale e il crimine organizzato di stampo mafioso. Ma volete sapere quali sono quindi i reati "minori" per cui vengono vietate? Associazione a delinquere, sequestro di persona, rapina, stupro, furto, spaccio, estorsione, truffa, frode fiscale, bancarotta, omicidio colposo e sfruttamento della prostituzione. Sono reati minori questi? Sarà felice lo spacciatore ma sarà molto più felice il dirigente corrotto, l'affarista truffaldino, il politico consenziente.
Spero vivamente che qualche voce si leverà e si farà sentire, perchè ci siamo stufati tutti di questo silenzio-assenzo che continua a far da padrone nel nostro Paese, di questa grande barzelletta che è l'Italia che "decostruiamo/costruiamo" zoppa giorno dopo giorno.